CAPITOLO
VII°
EMIGRAZIONE DA UN PAESE AGRICOLO
1. PREMESSA E CAUSE DI EMIGRAZIONE
L'Italia meridionale al momento dell'Unificazione presentava un'economia
prevalentemente agricola e l'attività rurale rappresentava l'unica fonte
di reddito per queste regioni; qui, le strutture agrarie antiquate,
l'attaccamento ad antichi metodi di produzione, i medioevali sistemi
contrattuali, la resistenza ai mutamenti di questi sistemi avevano
pregiudicato un pur necessario miglioramento delle condizioni di vita per
la grande massa contadina, amorfa, immobile in una specie di isolamento
culturale ed economico. L'economia, che era rappresentata da piccole
proprietà di terreno estese per poco più di un ettaro, che riuscivano
appena a garantire una misera sopravvivenza al proprietario e alla sua
famiglia in concomitanza con occupazioni sussidiarie e con l'uso delle
terre pubbliche, non cambiò aspetto con la liquidazione dell'asse
ecclesiastico e la vendita dei beni demaniali che anziché ingrossare le
file dei contadini beneficiari di tali quotizzazioni, andò ad accrescere
il potere economico-politico dei ricchi proprietari terrieri a cui lo
stato preferì vendere in quanto garantiva il pagamento immediato. In
questo modo, centralizzando la proprietà terriera, le masse rurali che in
passato potevano esercitare gratuitamente, o pagando modesti canoni, il
diritto di pascolo o quello di raccogliere la legna, adesso si videro
respinti dai nuovi proprietari non disposti a fare beneficenza e poco
propensi ad avviare un globale miglioramento del tessuto mercantile del
Mezzogiorno.
Il tentativo di riforma fondiaria dello stato post-unitario, dunque, fallì
completamente portando come unica novità la nascita della borghesia
fondiaria e rimanendo così inalterata la struttura agraria del Mezzogiorno
perché inalterati dovevano rimanere i rapporti tra contadini e
proprietari.
Le masse venivano poste così di fronte a tre vie ipotizzabili: -
rassegnarsi alla miseria dilagante - ribellarsi - emigrare. La
rassegnazione non era possibile visto che c'erano gli spasmi della fame,
la ribellione era già stata sperimentata con il brigantaggio per cui altro
non rimase che battere la via dell'oceano. Emigrazione allora divenne il
male minore, "l'arma della disperazione" e fu vista dalle stesse autorità
come una "valvola di sfogo", come strumento naturale per la soluzione
della questione meridionale; e ciò attraverso la riduzione della
sovrappopolazione agricola e la formazione di più avanzati rapporti
sociali e produttivi nelle campagne.
All'indomani dell'unificazione del paese, il primo effetto di cui risentì
il Mezzogiorno fu procurato da un brusco cambiamento della politica
economica operato dal nuovo governo unitario: dalle alte tariffe
protezionistiche, alla cui ombra si era sviluppata l'industria borbonica,
si passò all'instaurazione di un totale liberismo economico che portò non
pochi problemi alle fragili strutture sociali e produttive del Mezzogiorno
creando in questo modo presupposti della genesi e intensificazione di un
sensibile flusso migratorio.
Per essere una manifestazione di massa è difficile analizzare il fenomeno
migratorio in tutti i suoi aspetti dall'Unità d'Italia, dal momento che
non meno di 26 milioni di italiani hanno definitivamente abbandonato il
nostro paese e solo dal meridione sono partiti più di 9 milioni di
persone; è stato un fenomeno che per vastità(2),
costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di
nessun altro popolo. La differenza con le grandi emigrazioni degli altri
paesi è che queste non sono continuate massicciamente fino ad epoca
contemporanea; presentavano una differenza fondamentale cioè si dirigevano
verso paesi che erano colonia dei rispettivi stati e quindi paesi della
stessa lingua dove godevano dei diritti politici e quindi non si
consideravano emigranti né tanto meno stranieri. Non era così per gli
italiani, il loro apporto in alcuni paesi è stato molto grande, ma questo
ha significato abbandono e rinuncia alla loro cultura, alla loro lingua.
La partecipazione del Mezzogiorno all'emigrazione non fu dunque immediata
in quanto mancava oltre che ogni tipo di preparazione morale, l'ambiente
adatto cioè le vie di comunicazioni e la tradizione. Alle cause generali
dell'emigrazione (forte aumento della popolazione, l'arretratezza
dell'economia industriale e commerciale, la crisi dell'agricoltura e la
piaga della mala
ria), ogni regione aggiunge i suoi particolari problemi. Nel mezzogiorno i
contadini lasciavano i propri paesi a causa dell'aumento delle imposte,
della distruzione dei boschi che provocava il disordine delle acque, del
rincaro del pane, dell'aumento dei prezzi e particolare incidenza che ebbe
la crisi agraria. All'avvio dello sviluppo industriale non corrispondeva
nell'Italia meridionale un processo di razionalizzazione dell'agricoltura
pur rimanendo per il Meridione l'attività economica fondamentale; su di
essa infatti si reggeva l'economia di queste regioni e la terra rimase la
risorsa economica per eccellenza su cui si fondavano i rapporti tra classi
sociali (la crescita del settore agricolo si basava così su un'espansione
delle superfici coltivate e non su un aumento della produttività). Ecco
che l'emigrazione divenne l'alternativa alla miseria, in particolare alla
sotto utilizzazione delle forze lavorative, alla bassa retribuzione del
lavoro, alla crisi intesa come crollo dei prezzi delle principali
produzioni delle campagne tra cui il grano, in primo luogo dovuto alla
eccedente domanda internazionale e al contemporaneo afflusso in Europa del
grano e di altre derrate agricole dai territori d'oltreoceano. Il motivo
principale che spinse all'emigrazione fu il desiderio di accumulare dei
risparmi, "far fortuna" nella misura più notevole possibile e nel tempo
minore possibile per cui chi si diresse subito verso le "mete della
speranza" furono i braccianti che lavoravano alle dipendenze di
proprietari arroganti.
2. PERCHÉ SI EMIGRAVA
L'emigrazione(2)
era considerata positivamente come valvola di sfogo per l'allontanamento
spontaneo della gente malcontenta del suo stato. In realtà il contadino
meridionale fuggiva anche dai rapporti di gerarchia sociale parassitaria
che si articolava nel padrone (grande e piccolo proprietario non
coltivatore), nel guardiano.
In Basilicata l'emigrante era il terraticante, affittuario-proprietario e
il salariato delle masserie desideroso più che di elevare la propria
condizione sociale, era desideroso di vedersi aumentare il salario di
sussistenza che molte volte non bastava neanche per i bisogni primari. Se
i contadini vivevano di un'agricoltura di mera sussistenza e quindi
costretti ad emigrare, con la crisi dei vecchi mestieri gli artigiani a
volte precedono il contadino in quanto avvertono ancora prima la crisi del
tessuto economico circostante e questo a causa dell'impoverimento della
struttura della domanda contadina e popolare. L'emigrazione fu anche un
espediente con cui una generazione di artigiani estinse una capacità
professionale che veniva domandata sempre meno sul mercato del lavoro
locale. Ad ingrossare le file dell'espatrio furono dunque anche muratori,
scalpellini, fornaciai che videro declassarsi il loro mestiere in quanto
la domanda internazionale di massa richiedeva mansioni più dequalificate.
Dal 1946 al 1975, l'emigrazione(3)
d'oltremare si dirige principalmente verso l'America Latina (Argentina,
Brasile, Venezuela), cui seguono a distanza gli Stati Uniti, il Canada e
l'Oceania; mentre quella per i paesi europei preferì Germania, Svizzera,
Belgio, Francia.
Il primato dell'emigrazione transoceanica era naturalmente del
mezzogiorno, che in seguito al consolidarsi degli squilibri
economici-regionali, soprattutto dopo la fase post-unitaria, aveva
enfatizzato a dismisura l'entità del flusso migratorio. Ed ecco che la
partenza per l'America veniva a costituire il "vero indicatore di disagio
economico, ritenendola per il bracciante meridionale una scelta drammatica
e definitiva". Fu lo sviluppo preso dalla navigazione oceanica e la
facilità dei trasporti, insieme ai bisogni aumentati in rapporto al
desiderio naturale di migliorare la propria posizione, a far dirigere gli
emigranti verso l'America.
L'intervento dello stato si limitò alla legge del 1901: con questa legge
si disponeva un maggior controllo delle condizioni igienico-sanitarie
durante la traversata atlantica, l'eliminazione della figura dell'agente e
del sub-agente (molto spesso veri e propri strozzini) e l'obbligo di una
patente speciale per le compagnie di navigazione. Questa legge fu l'unica
risposta alle diatribe tra le varie forze politiche; dopo i vari dibattiti
sull'emigrazione, le opinioni si avvicinavano per lo meno nel
riconoscimento della libertà di emigrare accompagnate da misure di tutela.
Non poco tempo servì per abbandonare la questione teorica se l'emigrazione
fosse un bene o un male; dopo ciò si arrivava ad ammettere che il problema
presupponeva il dato di una dolorosa necessità. Con la legge del 1901,
(legge organica a carattere sociale con cui vi fu una chiara assunzione di
responsabilità da parte dello Stato: "l'emigrante è un cittadino che va
tutelato nelle diverse fasi della sua vicenda emigratoria"), prenderà
avvio una fase di politica migratoria più dinamica e responsabile,
contrassegnata dal coordinamento tecnico da parte del Commissariato
dell'Emigrazione, organo dotato di relativa autonomia politica e
gestionale.
Per parlare delle rimesse occorre fare una distinzione tra emigrazione
temporanea ed emigrazione permanente: le rimesse erano più frequenti
nell'emigrazione temporanea di non breve durata che quella definitiva,
dove invece, tendevano a diminuire nel tempo per la scomparsa dei
componenti vecchi della famiglia rimasta in patria e rappresentavano un
miglioramento della condizione sociale individuale e familiare degli
interessati tramutando i più fortunati in nuovi percettori di rendita.
Loro destinazione fondamentale erano dunque i consumi: provvedere alle
necessità correnti dei familiari, ingrandire, rimodernare o costruire una
casa, comprare un pezzo di terra; mentre non si era affatto parlato di
investimento per creare rapporti produttivi nel tempo.
D'altronde impiantare un piccolo esercito commerciale o una piccola
impresa artigiana costituiva, si, il simbolo di promozione sociale, ma si
avevano molti dubbi circa la produttività dell'investimenti, visto che era
localizzato nell'area d'origine, generalmente in via di spopolamento e con
scarsa possibilità di sviluppo produttivo. I risparmi non investiti in
beni durevoli, furono assorbiti dallo svilimento della moneta e
rimpatriati si trovarono di nuovo senza niente, molto spesso costretti a
ripartire.
Nel 1904 per 12 giorni la regione fu visitata dal Ministro Zanardelli, che
riscontrò la drammatica situazione della regione(4);
dopo il viaggio del Ministro fu approvata una legge che prevedeva
l'ampliamento del credito agrario, la costituzione di opere pubbliche, il
rimboschimento di zone desertificate e la costituzione di cattedre
ambulanti di agricoltura, di propagandare metodi moderni per la
coltivazione e la zootecnia.
Nella regione lucana più che altrove l'usurpazione delle terre demaniali e
il forsennato disboscamento ebbero effetti spaventosi; in tutta la regione
infatti il 25% della superficie boschiva venne dissodata con la complicità
delle amministrazioni locali e con un danno enorme soprattutto per
l'economia. Così allevamento e pastorizia (transumante), che
rappresentavano uno dei sostegni dell'arretratezza e debole economia
lucana, tendevano a caratterizzare, insieme alla cerealicoltura estensiva,
la vita economica lucana. Un peggioramento delle condizioni naturali,
affiancato all'impassibilità dei governi, rendono le condizioni non solo
dei contadini, ma di tutta la popolazione lavoratrice, sempre più misere.
La borghesia capitalistica del Nord e le società di navigazione,
attraverso gli agenti dell'emigrazione, che penetrarono nella regione
subito dopo l'Unità, trovarono il terreno abbastanza fertile e fu facile
convincere i contadini e gli artigiani lucani ad emigrare nelle Americhe.
3.
RICORDI DELL'EMIGRANTE
Colpisce
l'emozione che da esse traspare nel ricordare i vari episodi, parlando con
alcuni emigranti, ed allo stesso tempo la tristezza per essere stati
costretti a lasciare il proprio paese e i propri affetti; dalle risposte
che questi "americani" (si sono meritati questo appellativo da parte degli
altri cittadini) hanno dato, si evince con chiarezza, da un lato,
l'orgoglio di aver vissuto questa nuova esperienza, ma nello stesso tempo
la fierezza di essere ritornati al proprio paese e alle proprie origini
lieti di aver ritrovato i parenti ed i luoghi della loro memoria.
Per buona parte di essi l'America ha significato la realizzazione dei
propri progetti ma non ha significato grandi fortune e tutto ad un prezzo
molto grande: la lontananza.
L'emigrante santarcangiolese era schivo di contatti con operai o emigranti
di altre nazionalità, si racchiudeva nella cerchia dei suoi compaesani
dove poteva trovare conforto ed aiuto, consigli e proposte di lavoro; ha
conservato immutate la fede religiosa e la superstizione, ed in genere
tutto ciò che costituiva il modo di vivere del suo paese; nei momenti di
sconforto quando era depresso soleva ripetere la frase "scarpe de pezze
amereche de cazze"; tutto ciò stava a significare che nonostante i
sacrifici fatti per venire in America era costretto ad usare scarpe di
pezza che costavano poco e non poteva permettersi quelle di cuoio.
4. LA
SITUAZIONE SOCIO-ECONOMICA DI SANT'ARCANGELO AGLI INIZI DEL SECOLO
Sant'Arcangelo sorge su una collina arenaria e cretacea, molto franosa,
erosa dalle acque piovane, circondata da tre zone: una pianeggiante, una
collinare ed una media montagna. La zona pianeggiante che confina con il
fiume Agri è destinata alla coltura di ortaggi e frutteti, la zona
collinare viene adibita a seminativi, oliveti e vigne mentre la parte
media montana le colture sono a pascolo a grano ed in genere
cereo-agricole o erbacee o arboree. È un paese dunque prettamente agricolo
dove, nonostante le terre siano poco produttive, l'economia si basava sul
lavoro dei contadini, visto che erano proprio loro con i loro arnesi
tradizionali, dare una produttività alla terra arida spesso soggetta alle
inondazioni del fiume che privava intere famiglie del piccolo podere che
rappresentava per loro l'unica risorsa di vita.
La proprietà fondiaria era divisa in piccoli appezzamenti di terra, che
permetteva ai contadini di percepire un reddito sufficiente per
sopravvivere; c'erano poi i proprietari benestanti che avevano il possesso
della terra per successione naturale o derivante dalla feudalità o da
vecchie censuazioni o dall'acquisto di beni ecclesiastici avvenuti nei
secoli passati.
Le terre erano molto franose(5)
in quanto formate da argilla che imbevute di acqua durante le piogge
provoca continui smottamenti determinando così le frane alcune così
rovinose che "nell'aprile dei 1902 in S. Arcangelo sono crollate più di 50
case e la Chiesa di S. Maria degli Angeli" e negli anni '50 ci fu una
frana imponente che ha quasi cancellato metà del rione Castello.
Nei primi anni del novecento, Sant'Arcangelo, come altri paesi vicini, si
poteva definire un'isola perché aveva solo strade mulattiere o
carrozzabili che la metteva in comunicazione con i comuni limitrofi;
l'unico modo di comunicare consisteva nei viaggi che il contadino o
l'ortolano faceva con cavalcature nei paesi vicini per vendere il suo
prodotto o scambiarlo con altri o a bordo di carrozze o traini tirati da
quadrupedi.
La differenza di classe(6),
oggi non più individuabile, era molto sentita in ogni quotidiana
manifestazione della vita. Il lavoro dei galantuomini proprietari
consisteva solo nell'amministrare i propri beni, nel difendere la
proprietà, nel curare i cani utili alla caccia; i galantuomini
professionisti esercitavano la loro professione ma senza trascurare i
pochi svaghi che il paese offriva. Ad emigrare furono contadini,
salariati, braccianti, artigiani e non ci furono casi di emigrazione di
galantuomini.
5. FORE
TERRE
Il reddito
del contadino, che badava al suo orto, era dato dalla vendita dei prodotti
ortofrutticoli. In paese però, la possibilità di vendere i prodotti era
esigua in quanto la richiesta era molto scarsa dal momento che quasi tutti
i cittadini, contadini e non, erano produttori di ortaggi. Tutti
producevano almeno il necessario per vivere: chi non era in grado di
produrli, non era neanche in grado di acquistarli. Molte volte, invece, il
contadino ortolano, si privava per sé dei beni da lui stesso prodotti e
cercava invece di venderli specie nei paesi vicini per poter guadagnare
qualche lira che sarebbe servita ad altri fabbisogni di prima necessità.
Il sacrificio a cui andava incontro per portare a casa pochi spiccioli era
veramente sproporzionato al misero guadagno che poteva ottenere. Solo una
forza di volontà, sorretta da una povertà indescrivibile, la necessità ed
il decoro che una miseria dignitosa può dare, faceva sopportare le
fatiche. Dopo aver raccolto per tutta la giornata in campagna il prodotto
che il contadino doveva vendere fuori paese (specie le primizie) rientrava
e dopo aver riposato per poche ore si avviava in tarda serata con la
"salma" caricata generalmente sul mulo, in modo da poter giungere a
destinazione alle prime luci dell'alba andava "fore terre".
Percorreva, a piedi, da solo o in compagnia di altri contadini, decine e
decine di chilometri per strade impervie attraversando fiumi, torrenti
vorticosi, viottoli poco accessibili, affrontando intemperie a volte anche
l'aggressione di lupi, specialmente d'inverno, flagellati dalla pioggia e
dalla neve. Doveva superare tutti gli ostacoli e badare alla propria
incolumità, a quella dell'animale e del carico che doveva giungere in
perfette condizioni per poter essere venduto sulla piazza del paese di
arrivo alle prime luci dell'alba. Mi racconta Andrea che dopo una giornata
di lavoro la stanchezza era tanta che attaccato alla coda del mulo poteva
percorrere chilometri quasi in dormiveglia. Alcune volte quando il mulo,
che conosceva bene la strada, entrava nel fiume il conducente si svegliava
solo quando era immerso al ginocchio e l'acqua gelida lo aveva svegliato.
Altre volte, a cavallo del mulo, si svegliava solo quando le prime luci
del sole colpivano il suo volto.
Il contadino guadagnava molto poco e ancora meno spendeva per sé: gran
parte del denaro doveva servire per pagare le tasse e se rimaneva qualcosa
serviva per comprare indumenti per la famiglia; era gente povera che
vendeva ad altra gente povera e quindi i prezzi dovevano essere modici. Il
lavoro del contadino era una deprecabile rassegnazione alla fatica e alla
miseria, e sarà proprio questa miseria a provocare quell'intimo stato di
ribellione che insieme agli altri motivi portarono fin dall'inizio del
secolo ad una emigrazione di massa.
Il contadino era completamente assorbito dal suo lavoro e conosceva il
riposo solo nei giorni di pioggia o nelle feste principali.
Il salariato fisso(7),
stava alle dipendenze del "massaro" che a sua volta era affittuario che
portava avanti il lavoro di una "masseria" per conto del suo proprietario
"galantuomo". Anche se l'economia del paese si basava fondamentalmente
sull'agricoltura, vi erano altri mestieri a cui si dedicava parte della
popolazione; tra i mestieri per cui guadagnava l'appellativo di "maestro",
molto diffusi erano il mestiere di muratore, fabbro ferraio, calzolaio,
sarto.
6.
ABITAZIONE IN UN PAESE AGRICOLO
Le case
erano tutte simili tra loro, a parte naturalmente quelle delle famiglie
più agiate. La casa del contadino era misera, sia nella costruzione che
nell'arredamento; si componeva in genere di una sola stanza con davanti un
lastrico che costituiva pertinenza della casa dove la donna eseguiva
d'estate i lavori che d'inverno faceva davanti al focolare (filare,
rinacciare, ecc.); ed in fondo c'era una specie di stalla dove trovava
ricovero anche qualche animale. Le costruzioni erano fatte di pietra viva,
mattoni e calce e non sempre erano intonacate esternamente; la parte
interna, abitata, era intonacata ed una volta l'anno veniva imbiancata,
preferibilmente a maggio, con calce viva dal momento che durante l'inverno
si abbruniva per il fumo proveniente dal fuoco dal forno, dalla luce ad
olio che illuminava la casa. Il pavimento era fatto in mattoni di creta
"cotto" mentre il tetto era di canne intrecciate e travi con una specie di
soffitto-abbaino-ripostiglio. Quell'unica stanza, di cui si componeva la
casa, serviva da cucina, da stanza da letto, da magazzino che conteneva
tutte le masserizie occorrenti al fabbisogno della casa stessa. Il letto
era il migliore ornamento della casa, grande e sollevato si appoggiava ad
una parete dell'abitazione: sotto il materasso, quasi mai di lana, vi era
un'altra specie di materasso riempito di foglie di granturco. Intorno alle
restanti pareti venivano sistemati i letti dei figli più grandi e quando
la famiglia era numerosa (quasi sempre), nello stesso letto dormivano più
figli. L'arredamento della casa era poi composto da sedili di legno;
generalmente vi era una sola sedia impagliata che si teneva appesa al muro
e veniva usata in poche occasioni, si solito per far sedere persone di
riguardo: il medico, il prete, l'ufficiale esattoriale, la levatrice.
Vi era poi un tavolo, due casse di legno contenenti in una la biancheria
avuta in dote, ma anche quella che si preparava alla figlia ed in un'altra
deponeva il pane e la farina. Sopra il letto, attaccata ai travicelli,
dondolava la culla che per mezzo di una corda la mamma faceva dondolare la
notte nel caso il bambino si svegliava. Agli angoli della casa venivano
riposti gli attrezzi leggeri di lavoro: zappe, zappelli, rallato ed altri
attrezzi. Attaccati ai travicelli pendevano ancora dalle "verghe" peperoni
secchi, pannocchie e a volte anche vari salami. L'unica fonte di luce era
quasi sempre la porta che si componeva di tre parti: una parte
generalmente fissa chiudeva metà dell'uscio, l'altra era divisa in due
parti, una superiore ed una inferiore, di solito quella inferiore rimaneva
chiusa mentre da quella superiore entrava proprio luce ed aria. Ogni casa
era dotata di un camino indispensabile per riscaldare ma anche per
illuminare la casa; appena fuori la porta vi era il forno che veniva usato
in media una volta la settimana dalla donna per fare il pane.
Il focolare era il centro di tutte le quotidiane manifestazioni della
vita. Intorno al focolare infatti, si mangiava, si concludevano gli
affari, si preparava il cibo, si parlava di tutto. Davanti al focolare, si
manifestava il sentimento di ospitalità e si estrinsecava con genuina
semplicità, con franchezza di modi e di sentimenti e a volte con affetto
anche con persone appena conosciute.
Se la casa era fornita di finestre, alla distanza di 20-50 cm da ogni
spigolo, vi erano due fori da cui fuoriuscivano due pali conficcati nel
muro. Su questi pali si appoggiava un piano formato da canne legate in
maniera molto stretta tra di loro con fili di salice. Questo ripiano,
esposto generalmente al sole serviva per far essiccare i vari prodotti
della terra e poi sarebbero serviti per l'inverno. Il paese, fino al primo
trentennio del secolo, è stato sprovvisto di acquedotto per cui i
cittadini dovevano attingere l'acqua alle fontane che erano distanti dal
paese fino a 2-3 km. A questo provvedeva in genere la donna, che dopo aver
aspettato il suo turno "vecita", riempiva il barile e ripercorreva la
ripida salita trasportando il recipiente in testa. L'acqua veniva così
attinta dal barile per tutti gli usi, mentre per bere si conservava in un
apposito recipiente di terra cotta che manteneva intatta la sua
freschezza.
Nelle case non c'erano servizi igienici, in quelle dei "galantuomini" si
trovava spesso una sedia di legno tutta chiusa con al centro un grosso
foro, con uno sportello nella parte sottostante il sedile dove era
sistemato un recipiente di creta. I contadini andavano a fare i propri
bisogni nella parte periferica del paese dove si era spontaneamente
stabilita una specie di consuetudine seconda la quale in un determinato
posto andavano le donne, e più lontano, in modo da non vederle gli uomini.
Il contadino ha sempre amato la sua casa, anche se piccola e molto misera,
anche se un abituro e questo può far capire con quanto dolore ha dovuto
lasciarla per partire per terre lontane in cerca di un lavoro.
Note
1
Questi flussi di esodo sono stati sempre in costante aumento fino agli
anni '60 quando il flusso si è arrestato ed è iniziato anche se
timidamente il fenomeno della immigrazione; infatti nel primo periodo
dell'emigrazione, contribuiscono a questo movimento in misura maggiore le
regioni settentrionali e cioè il Veneto con il 13%, il Piemonte con il
12%, il Friuli con il 10% e solo in seguito la Campania con il 10% e la
Sicilia con il 9,5%.
2 Gli
emigranti sono quasi tutti braccianti, contadini, fittavoli o coloni che
possedendo pure qualche cosa, vendono alla meglio il loro campicello, le
loro masserie, lasciano )e famiglie prive di tutto. Risultava così che la
posizione del proprietario non era considerato più felice di quella del
contadino.
3 La "gena
lucana" ammontava nel 1881 a 524.504 unità, nel 1901 e nel 1911, risultò
rispettivamente di 490.705 e 474.021 unità. Tale contrazione non fu dovuta
ad una diminuzione degli indici di natalità e di fecondità, ma il calo
demografico è da imputare esclusivamente al notevole esodo migratorio.
4
"Carenza di vie di comunicazione, le miserabili condizioni di vita nei
bassi di Potenza e nei sassi di Matera, e la mancanza di acqua potabile in
molti paesi lucani. Manca in tutta la provincia qualsiasi traccia di
grande industria. La terra ha una produttività molto tenue: la
coltivazione è quasi ovunque estensiva e soprattutto a causa della malaria
la popolazione è fortemente agglomerato. In qualche anno la Basilicata ha
raggiunto il massimo di mortalità per malaria fra tutte le regioni
dell'Italia continentale", scrive Zanardelli nel suo libro.
5
Nonostante siano stati emanati provvedimenti speciali a favore della
Basilicata (es. legge 31 marzo 1904 n.140 G.U. 20-4-1904, n.93) che
prevedevano vincoli forestali su tutti i terreni franosi, direttive per la
sistemazione idraulica dei fiumi, il risanamento degli abitati (fornitura
di acqua potabile, fogne, strade) il problema è rimasto quasi irrisolto.
6
All'apice dei ceti sociali c'erano i "galantuomini", in genere proprietari
di terreni agricoli piuttosto estesi (senza però che potesse costituire
latifondo) che a loro volta si distinguevano in galantuomini considerati
tali da più generazioni per i beni posseduti e per il prestigio di cui
godevano; vi erano anche galantuomini che si erano emancipati da una sola
generazione e poi quelli che erano riusciti ad elevarsi da "cafoni" a
"galantuomini" solo da un punto di vista economico e patrimoniale.
Pubblico e spontaneo riconoscimento di appartenenza a tale gruppo sociale
era il "don" che precedeva il nome di battesimo. Questo privilegio veniva
inoltre attribuito ai professionisti, agli impiegati statali o comunali di
un certo livello, ai maestri di scuola elementare. Seguivano nella
"gerarchia sociale" la classe dei commercianti, poi c'erano gli
agricoltori detti "massari", gli artigiani chiamati "maestri", i mezzadri
o coloni, affittuari di piccoli fondi, i contadini in proprio, i
braccianti, i salariati fissi, i pastori. Il lavoratore dei campi si
divide in due categorie: u' zapparule (l'ortolano) e il salariato fisso
disseminato nelle varie "masserie", che a sua volta si distingueva in
guardiano di animali (pecore,capre, maiali, mucche) o bifolco massaro di
campo.
7
L'organico dei salariati fissi è rappresentato a sua volta da uno o più
gualani, dal porcaro, dal pastore, da un giovanotto di 14-18 anni che
presta la sua opera ad anno e da ragazzi dagli 8 ai 14 anni anch'essi
ingaggiati ad anno per aiutare il pastore ad allevare le scorte vive. Il
pastore aveva dunque alle sue dipendenze un pastorello e queste due unità
erano in grado di badare a 100-150 pecore. Un pastore guadagnava poche
lire all'anno ed in più beni in natura. Il pastore non sempre firmava, in
quanto analfabeta, e concordato il compenso l'unica copia del contratto
restava in mano al proprietario.
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Sant'Arcangelo" SEGUE
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